mercoledì 30 aprile 2008

vita o morte: quale l'inconveniente? Passare per Leopardi con il pensiero a Cioran

Prendiamo un frammento della parte 24 delle Operette Morali del Leopardi:

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico. Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero e tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca (n.61), alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino.

E' proprio nella parola che chiude questo passaggio che risiede la chiave del problema. Il destino. Come può nascere un pensiero che veda la vita come un'inconveniente -capovolgendo così l'umano senso comune che vede nella morte tale momento - senza la nozione di un destino inteso come necessità originaria, come dispiegamento d'una struttura incontrovertibile ed incontrovertita - senza Dio? A riguardo lo stimolo è rivolto all'approfondire meglio l'intendimento leopardiano di Deus sive natura.
Oltre a ciò va però posta a problema l'intera umoralità (sottesa alla profonda consapevolezza) che il Leopardi conferisce a Tristano, il quale se la prende con l'umanità come "marito innamorato" e tradito:verrebbe da chiedersi quanto anche Tristano si senta, in fondo, tradito dall'uomo tradito. La posizione del Tristano, del filosofo consapevole - con il beneficio della metafora ma evitando sterili e nauseanti psicologismi - parrebbe proprio quella dell'amico, innamorato aspramente della vita e caldamente dell'amico che da essa viene tradito. La più grande infelicità è dunque quella nobile dell'amico, il più solitario amante del Tutto. Non c'è tedio, ma assedio, al cuore.

Per l'appunto stretto appare il legame amicale, a questo punto, con Cioran, il quale in un punto dice:

Noi non corriamo verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante. Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all'inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male, è però dietro, non davanti a noi.
(De l'inconvénient d'etre né, p.10)

Ma il passaggio che, unito a questo punto, raddoppia l'enigmaticità dell'argomento e dei due autori presi in esame, è il seguente :

Scuotere la gente, svegliarla dal suo sonno, pur sapendo di commettere in tal modo un crimine e che sarebbe mille volte meglio lasciarvela perseverare, poiché comunque, quando si sveglia, non si ha nulla da proporle...
(De l'inconveniént d'etre né, p. 178)

Ecco, dunque, l'essenza del turbamento amicale. Il nichilista elegante, per riprendere in mano un concetto più volte da me affrontato in passaggi precedenti, non può non tenerne conto in una forte tensione problematica. Un' autocoscienza del Nulla.

Simonfrancesco Di Rupo

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