lunedì 31 marzo 2008

Per un nichilismo elegante

UNE NINCE CRISTAL
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Per un nichilismo elegante

Come non nutrirsi di queste parole :
« Sur une nince cristal, l’hiver conduit leurs pas :
le précipice est sous la glace
telle est de nos plaisirs la fragile surface
glissez, mortels, n’appuyez pas. »
(Pierre Charles Roy)

Se “sotto il ghiaccio” si cela senza neanche troppo nascondimento il “precipizio” del nulla, se quel “sottile cristallo” posto dall’ “inverno” pone l’uomo nella condizione del pericolo di caduta irreversibile, allora ciò può essere ben ripensato nel clima del nichilismo odierno. Se essere nichilisti oggi può voler dire anche ripensare continuamente tale condizione, ecco che l’invito “Glissez, mortels, n’appuyez pas/ scivolate, mortali, non appoggiatevi” appare come uno fra i moniti più ricchi possibili. Il nichilista oggi corre il continuo rischio di specchiarsi, attraverso quel sottile cristallo, quasi per cogliere il nulla come un’occasione per verificare la propria narcisistica nullità. Ma il nulla non ama aspettare le nostre vanità, non ci lascia giocare al Dorian Gray dell’occulto troppo a lungo. Che tutto sia indifferente, che appaia l’assommarsi delle differenze in una coincidentia (per così dire) perennis non è che l’epifenomeno della nostra volontà di potenza. Facciamo coincidere essere e nulla ancor più palesemente, nella civiltà dell’immagine, dell’esplosione dei simboli, della persuasione della libertà. Non c’è cosa più ordinaria e ordinata del caos: questa la lezione della postmodernità per come lascia apparire un’intera civiltà nel suo marasma di libertà tiranna.
Se c’è uno scritto valido, fra i pochissimi in uscita in questo periodo, ecco che dobbiamo sottolineare questo ottimo “Horror Pleni. L’(in)civiltà del rumore” di Gillo Dorfles, bellissimo filosofo ora 98enne. Possiamo igienizzare il nostro nichilismo tramite queste sue chiare parole: “In contrasto con l’antico Horror Vacui dell’uomo preistorico che colmava ogni angolo della sua caverna con immagini autoprodotte, oggi l’orrore del troppo pieno corrisponde all’eccesso di rumore sia visivo che auditivo, che costituisce l’opposto di ogni capacità informativa e comunicativa”. Forse c’è “troppa creatività”.
Ecco che dunque l’uomo si sofferma, per effetto di quell’epifenomeno della volontà di potenza prima menzionato, su quel sottile cristallo di Pierre Charles Roy; l’Horror Pleni di Dorfles è uno spettacolo troppo ghiotto per l’uomo di questo nichilismo odierno. Il pericolo di sentirsi sgretolare il ghiaccio sotto i piedi è la fascinazione ultima a metà fra contraddizione e coerenza, a questo punto. Il nichilismo è questa oscillazione fra contraddizione e coerenza, è questa la mina all’epistéme.
Così dicendo parrebbe dunque che l’invito a “scivolare e non appoggiarsi” non sia altro che un ultimo drammatico invito cristiano al ritenersi dalla perdizione. Ma così non è. L’invito dice: che i mortali non si appoggino al fragile cristallo del ghiaccio per sapere quanto è consistente, cioè per conoscere la verità, ma scivolino via: ben presto il ghiaccio si spezza. Il punto è: come sappiamo che il ghiaccio si spezza? Quale esperienza storico-filosofica abbiamo sulla groppa per poterci fornire questa conoscenza? Ebbene, tutti i costrutti metafisici contro i quali il nichilismo stesso si scaglia. Ogni sapere, o più precisamente ogni epistéme, non ha fatto altro che corazzarsi di un ghiaccio inconsistente, che puntualmente si spacca al di sotto dell’acutezza della filosofia asistematica – i padri del nichilismo contemporaneo (Leopardi e Nietzsche) lo sanno molto bene.
Ecco allora che questo nuovo specchiarsi, questo nuovo appoggiarsi accettando lo spettacolo dell’Horror Pleni non fa che proseguire il percorso programmatico della nostra alienazione. Si può dunque essere nichilisti in maniera più elegante – ovvero possiamo scivolare? O forse dovremmo convincerci che il nichilismo non è un “periodo” ( e ancor meno una scelta di stile) ma l’istanza fondante del nostro rapporto con la consistenza del ghiaccio?
Lascio il problema aperto.

Simonfrancesco Di Rupo

sabato 22 marzo 2008

L'Artiglio della santità. L'insana perfezione di Gloria Degli Estinti

(Quadro letterario, inchiostro su carta,romanzo di 1 pagina)


L'ARTIGLIO DELLA SANTITA'.

L'insana perfezione di Gloria Degli Estinti


Quando sul palazzo di famiglia s'abbatteva il primo sole Gloria Degli Estinti era già sempre levata; ogni dì, all'ultimo rossore ingenerato dal buio notturno, ella sentiva il richiamo della vita.
Quanto quel rossore le assomigliava! Il confuso nero della sua anima partoriva così spesso quella coloritura sulle sue gote, ogni qual volta qualcuno ambiva a portarla al di fuori della sua notte. Bellezza superba, tentativo riuscito di una natura sagace, aveva i capelli e lo sguardo più noti alle voluttà d'ogni sorta di Casanova. Ma ella, mente fervida e tremebonda, avvertiva a miglia di distanza l'insulso gioco che l'eros sottopone a noi tutti. Per un tragico ed elevato spiraglio di libertà ferita ella sapeva che sottraendosi a tale giuoco promuoveva al mondo la più terribile e feroce delle ingiurie: la donna casta e santa, ovvero quello slancio del tutto passionale di rivendicazione umana della propria capacità di fermare l'umana vicenda. Donna non come grembo della prosecuzione, ma donna come stallo e fermo dell'insensato e folle persistere sulla Terra. Sublime sensazione quella di colei che si sottrae, da bellissima e cangiante. E quanti uomini sarebbero morti se solo Lei su di essi avesse effettuato la minima delle loro fantasìe!
Ma omicida ella non era: semmai rapace. L'artiglio della santità le era peculiare. Quanto acume necessitava, ogni dì, la cura del suo aspetto e della sua sensualità. Quella sensualità che noi conosciamo esservi in dio, che ognora ci chiama e si nasconde. Quel malefico sottoporre l'interiorità al sobbalzo della possibilità d'un senso e d'un disegno.
Ma gli uomini s'ingannan sempre su dei e donne, poiché sol un segno ne avvertono, o ancor più il silenzio; e sol da questi silenzi e sogni essi disegnano il mondo che vorrebbero con altra firma.
Gloria Degli Estinti fermava il mondo: quello possibile e quello architettato. La sua esistenza era dipinta da ciò che lega l'aurora col crepuscolo, e mai nome era più appropriato del suo, per richiamarci all'idea quella forza insita nello sguardo della Bellezza che non si offre.


Simonfrancesco Di Rupo, notte fra 21 e 22 marzo.

domenica 16 marzo 2008

Il pensiero d'una Scintilla

Perché dalla notte di una Scintilla spero se ne tragga una grande Notte
e se ella ha dovuto soffrire, che noi stessi se ne soffra con garbo
Poiché poesia mia or non vale quanto il suo vagar per questo sonno
le dono il momento mio interiore di scoperta del Suo Valore:

"Sovente in queste rive/che,desolate, a bruno/veste il flutto indorato, e par che ondeggi,/seggo la notte; e su la mesta landa/in purissimo azzurro/veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,/cui di lontan fan specchio/il mare, e tutto di scintille in giro/per lo vòto seren brillare il mondo." (Giacomo Leopardi)

Sol da qui e non oltre La potei chiamar Scintilla.

Sol così, non oltre, potrei parlarne

poiché mai la accarezzai.

Dialogo fra La Voce e Il Sospiro

DIALOGO FRA LA VOCE E IL SOSPIRO.

Un uomo, percosso dalle sue sconfitte, s’accasciò e vide le sue componenti arrovellarsi l’una contro l’altra. Fra tutte ebbero la meglio in breve tempo, prima d’ogni azione, La Voce e Il Sospiro.

LA VOCE: O uomo, io parlo da te...

IL SOSPIRO: O uomo, o voce, io parlo per voi.

LA VOCE: Cosa ci separa, Sospiro? Tu, boia dei miei tempi, acuto estirpatore delle mie sensatezze, oh potessi mai più sopraggiungere in ogni mio silenzio!

IL SOSPIRO: Già ora stai parlando troppo. Tu misconosci ognora il tuo compito. Il pensiero procura problemi su cui agire e patire, e tu, invece, parlasti.

Il gelo si sovrappose alla discordia. Lo ruppe La Voce:

LA VOCE: L'uomo ben poco può senza di me.

IL SOSPIRO: L'uomo ben poco può contro di me.

La Voce, colpita da quest'ultima frase, si aprì e così si espresse:

LA VOCE: Sii mio amico in quest'ora di sconforto.

IL SOSPIRO: Non posso esserti amico, posso solo esserti appresso, non affianco.

LA VOCE: Orsù,con l'uomo abbiamo sempre a che vedere, entrambi. Infine dimmi: cos'è che ci avvince ?

Il Sospiro tacque per breve tempo, poi giunse alla verità:

IL SOSPIRO: “I debiti di un'anima irrisolta".

Simonfrancesco Di Rupo

martedì 11 marzo 2008

poesia

IL GIOCOLIERE DI VETRO.

Dalle mani fatate del giocoliere di vetro

escono giochi d'infranta virtù

delle sue mani fatale è il rintocco

di quando cadenti

s'infrangon pure loro.

(mescolate così a terra con l'opera loro, così tragicamente amata)

lunedì 10 marzo 2008

poesia

Mai l'amore d'opinar mi chiese
ma solo accordata riverenza.


M'inchinai sin dagli albori

ai primi raggi d'autorità

della femminea aurea incandescente

- che mi trafigge -

abbandonai le mie virtù e le donai

al calderone di quella prigione nera

che è la libertà.

Non più me, di fronte all'abisso

del becero abbandono.

domenica 9 marzo 2008

AMMAZZARE IL TEMPO?

AMMAZZARE IL TEMPO ?

***

Una distopia incerta e autocritica

“Ammazzare il tempo”. Quanto, in questo apparentemente semplice “modo di dire”, si nasconde invece un modo del dire, del nostro dire circa il nostro rapporto con la temporalità.

I problemi ad esso annessi nel contesto della civiltà della tecnica sono stati estesamente presi in esame dal filosofo Gunther Anders, ancora non considerato appieno per il suo merito.

Ho infatti trovato nel secondo tomo della grande opera L’uomo è antiquato una considerazione molto affine ad alcune mie riflessioni: “l’obiettivo asintotico dei nostri sforzi odierni è la soppressione del tempo”. Ecco che quel modo di dire trova in questo caso una sua espressione filosofica; “ammazzare il tempo” è il proposito dell’uomo nell’età della tecnica, di quel “civilizzato” immerso nella ruota sfrenata del fare. Ma il movente, di questo desiderato delitto, che contorni assume in questo tipo d’uomo? Anders sottolinea: “il desiderio è lasciarci il più rapidamente possibile qualcosa alle spalle perché tutto, in quanto dura, dura troppo e per questo motivo è qualcosa che ruba tempo”. In questa cornice l’uomo è gettato nella insofferenza più marcata per il divenire, ovvero per quella struttura del mondo ritenuta inequivocabile. Il divenire non solo angoscia l’uomo, ma lo rende dipendente da esso. Si vuole uccidere ciò che ci fornisce le armi. Il tempo è qualcosa che “va guadagnato”, e l’unico modo per ottenerlo è ridurlo, quando lo si ha, ad un minimum. Questo il paradosso schizofrenico dell’uomo nell’età della tecnica. Come si lega quest’uomo all’ubermensch nietzscheano? Che tensione verso la morte cambia (se cambia) rispetto alla tradizione, nella sua essenza? E’ proprio questo l’uomo che supera la convalescenza di Zarathustriana memoria?

Rimango nel dubbio, e rammento le sue sagge parole proprio ne Il convalescente, quando viene interpellato dall’aquila e il serpente: “L’uomo è verso se stesso il più crudele degli animali; e quando udite coloro che chiamano se stessi ‘peccatori’ e ‘portatori di croce’ e ‘penitenti’, badate di non farvi sfuggire la voluttà contenuta in questi lamenti ed accuse!”.

Ad ogni modo Gunther Anders, in una felice considerazione, avvicina l’uomo odierno più a colui che vive “nel paese della Cuccagna, cioè senza mediazione, cioè senza più aver bisogno di gettare un ponte di tempo tra desiderio e appagamento.” E altrove: “con l’abbreviarsi delle nostre azioni, appunto, guadagniamo una quantità di tempo, di cui non sappiamo fare nulla, talmente tanto tempo che, terrorizzati dall’horror vacui, saremo costretti a suddividere questo vacuum in attività il più possibile numerose che cancellano il tempo”. Ma il grande paradosso ottimamente fatto emergere dal nostro autore riguarda come in tale quadro s’ inscriva il senso della morte dell’uomo stesso. L’età della tecnica (generata dall’uomo) vuole “ammazzare il tempo” per la fretta di procurarsene sempre più, ma inserisce gli uomini stessi nelle sue trame meccaniche, sino a non far più dell’uomo un essere mortale, bensì “uccidibile”. Ecco il pregevole passo del 1979: “non è un’esagerazione sostenere che sono sempre meno quelli di noi che muoiono semplicemente per stanchezza di vivere o per la debolezza della vecchiaia. Semplici casi di morte sono ormai antiquate rarità. Per lo più la morte viene prodotta. Si è fatti morire. Noi uomini di oggi non siamo mortali; piuttosto, in primo luogo, uccidibili”. Il nostro morire è parte dell’apparato tecnico, un suo momento prestabilito e rotante. Ma così è possibile per l’uomo “ammazzare il tempo”, o forse, all’inverso, è prima lui che uccide noi tutti? La questione rimane aperta.

Fatto rimane che l’ipertrofia da tempo, questa forma di bulimia esistenziale porta fino al bisogno di ucciderlo, in un circolo vizioso che ha più del patologico che del soteriologico (ammesso che fra le due cose non ci sia mai stata parentela) – non c’è il sentimento dell’assassino aristocratico, di colui che uccide per qualcosa di superiore, per salvarsi e redimersi dall’infimo – e chissà che questo piano del soggetto circa il suo rapporto con il tempo non corrisponda ad un piano metastorico, per cui all’Uomo universalmente inteso è dato, progressivamente, (voler) uccidere la sua fonte di sostentamento, Iddio, Natura, Tempo che sia…

lunedì 3 marzo 2008

Attualità di Epicuro. Per un salto a piè pari del “problema” fede - ragione

Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità

Questo breve, semplice ma focale tratto della Lettera sulla felicità di Epicuro tratteggia in maniera esemplare e del tutto attuale ciò che in primo luogo intendo sia il mio punto di partenza per ogni considerazione sulla religione ; ma non solo per me, può avere pregnanza.

Chi ora scrive è da sempre fortemente scettico (non critico, si badi) riguardo la religione - va precisato - e non ha mai mancato d’ironia nel trattare dio (si consideri già come è stato scritto: la ‘d’ non fa a tempo ad esprimere la terza persona che già s’impone ‘ IO’ – e si veda nel libro di aforismi la sezione “scomodare dio – e dunque l’uomo”).

Nell’attualità siamo , come di consueto, in quanto animali polemici (zoon polemikòs?) di fronte alla annosa “problematica fra fede e ragione”. Ma è proprio tornando a questo semplice precetto Epicureo che abbiamo il dovere di saltare a piè pari la banalità con cui, giornalisticamente, a “onor di cronaca” viene affrontato l’argomento fra i più chiassosi del silenzio del mondo e dell’interiorità con mano pesante e intelletto grattugiato da chi ne fa una questione da risolvere in una ventina di minuti (forse lo stesso tempo dedicato da costoro alla riflessione sul problema). Ulteriore chiasso fanno dunque fedeli e “razionalisti” quando tendono a far valere più una delle due posizioni sull’altra secondo il linguaggio del senso comune, come se l’uomo potesse dire di non aver bisogno talvolta del piede destro o del sinistro per vivere, amputandosi prima l’uno poi l’altro.

E questa dialettica è un prodotto della cultura. Che va dunque ripensato – forse con meno “cultura” - e con più contemplazione.

Il sensus communis, ovvero quel tarlo che colpisce non tanto lo sbadato plebeo quanto piuttosto chi ritiene d’esserne uscito fuori una volta per tutte dopo una spremuta acida di vocabolario d’italiano e dopo una vacanza nel villaggio vacanze dei luoghi comuni, animato, come sempre accade nei peggiori viaggi, dalla fretta.

RIVALUTARE QUEL MAGICO FOLLE DI GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG


Esempio di feroce ironia, acuto creatore di verità friabili e pazze, Lichtenberg (nato nel 1742) fa parte sicuramente della schiera dei filosofi troppo poco valorizzati dalla critica e dalla storiografia. Siamo di fronte a un selbstdenker, un pensatore autonomo alla maniera del Nietzsche, che dall’alto della sua idiosincrasia per i complimenti ad altri al di fuor di lui, non ha però mai smesso di considerare gli aforismi del Nostro “fra i quattro, cinque libri della letteratura tedesca degni di essere letti e riletti”. Ma pure da Kant, Schopenhauer, Goethe, Wagner era letto e amato, con una fortuna postuma ed illustre tipica proprio di questi eremiti del pensiero, così maltrattati dalla banalità della loro vita quotidiana, almeno fino a quando qualche bizzarria creata ad arte non la riaccenda. Una vita giovanile passata fra il lavoro di correttore di bozze e losche taverne, pomeriggi passati a costruire cannocchiali per poter guardare alla sera le cameriere che si spogliavano nel palazzo di fronte, almeno fino a quando non si innamorò di una mendicante per strada, che romanticamente corteggiò e un po’ meno romanticamente sposò :“il matrimonio ti fa diventare un animale a quattro zampe”. Etilista – artista del bere, si vantava di viaggi mai fatti, da vecchio dongiovanni diceva di voler sedurre “la madre di Dio”, appassionato di scheletri per lezioni d’anatomia, passò la vecchiaia ad assistere a ben 113 funerali di gottinghesi seduto comodamente nel suo giardino. Si dice che al momento della sua morte stesse confabulando in maniera incomprensibile a proposito di stelle cadenti.

Rendiamogli onore tramite svariate sue scorribande:

“I re credono spesso che quello che fanno i loro generali e i loro ammiragli sia ispirato da patriottismo e da amore per il sovrano. Ma spesso la vera molla delle grandi azioni è una ragazza che legge il giornale.”

“Che nell’uomo non ci sia nulla di speciale lo dimostra soprattutto la prolissità della giurisprudenza”.

“Se nascesse un altro messia, difficilmente potrebbe fare tanto bene quanto una tipografia”.

“La gente che non ha mai tempo fa pochissimo”.

“Se i pesci sono muti, le pescivendole sono in compenso loquacissime”.

“L’uomo dei tempi antichi sta a quello moderno come un girarrosto a un orologio a ripetizione”.

[diario personale del 1797, composto da una sola pagina, con su scritto ciò]“Il giorno 24 mi è nato un figlio”.

“Se potessimo esprimerci con la stessa completezza con cui sentiamo le cose, gli oratori incontrerebbero meno riluttanza e gli innamorati meno crudeltà”.

“Il mondo non dev’essere tanto vecchio, visto che gli uomini non hanno ancora imparato a volare”.

“Quell’uomo era così intelligente che non lo si poteva quasi utilizzare per niente al mondo”.

“Tutto si affina: un tempo la musica era frastuono, la satira una pasquinata. E mentre oggi diciamo ‘permetta, di grazia’, un tempo si rifilava uno scapaccione”.

[sul bere]” La pinica, ossia la scienza di viaggiare con profitto nei paesi al di là della bouteille(…)a me pare che non ci sia bisogno di forti lenti di ingrandimento per convincersi che una trattazione filosofica di questa teoria sarebbe di estrema utilità per il genere umano”.

“Molte cose, che ad altri dispiacciono soltanto, a me fanno male”.

“L’uomo, l’animale che affoga in una lacrima”.

domenica 2 marzo 2008

prossimamente

- un articolo su G. C. Lichtenberg

- un articolo sul problema "fede- ragione"

un particolare saluto a Scintilla.