lunedì 3 marzo 2008

Attualità di Epicuro. Per un salto a piè pari del “problema” fede - ragione

Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità

Questo breve, semplice ma focale tratto della Lettera sulla felicità di Epicuro tratteggia in maniera esemplare e del tutto attuale ciò che in primo luogo intendo sia il mio punto di partenza per ogni considerazione sulla religione ; ma non solo per me, può avere pregnanza.

Chi ora scrive è da sempre fortemente scettico (non critico, si badi) riguardo la religione - va precisato - e non ha mai mancato d’ironia nel trattare dio (si consideri già come è stato scritto: la ‘d’ non fa a tempo ad esprimere la terza persona che già s’impone ‘ IO’ – e si veda nel libro di aforismi la sezione “scomodare dio – e dunque l’uomo”).

Nell’attualità siamo , come di consueto, in quanto animali polemici (zoon polemikòs?) di fronte alla annosa “problematica fra fede e ragione”. Ma è proprio tornando a questo semplice precetto Epicureo che abbiamo il dovere di saltare a piè pari la banalità con cui, giornalisticamente, a “onor di cronaca” viene affrontato l’argomento fra i più chiassosi del silenzio del mondo e dell’interiorità con mano pesante e intelletto grattugiato da chi ne fa una questione da risolvere in una ventina di minuti (forse lo stesso tempo dedicato da costoro alla riflessione sul problema). Ulteriore chiasso fanno dunque fedeli e “razionalisti” quando tendono a far valere più una delle due posizioni sull’altra secondo il linguaggio del senso comune, come se l’uomo potesse dire di non aver bisogno talvolta del piede destro o del sinistro per vivere, amputandosi prima l’uno poi l’altro.

E questa dialettica è un prodotto della cultura. Che va dunque ripensato – forse con meno “cultura” - e con più contemplazione.

Il sensus communis, ovvero quel tarlo che colpisce non tanto lo sbadato plebeo quanto piuttosto chi ritiene d’esserne uscito fuori una volta per tutte dopo una spremuta acida di vocabolario d’italiano e dopo una vacanza nel villaggio vacanze dei luoghi comuni, animato, come sempre accade nei peggiori viaggi, dalla fretta.

2 commenti:

Lorenzo ha detto...

Il tuo salto a piè pari dell'"annosa problematica fra fede e ragione"mi appare,nella sua sinteticità,un apprezzabile tentativo di elevarsi al di sopra di una disputa usurata.
Detto ciò,ti confido che il tuo stratagemma non mi convince pienamente:mi lascia perplesso ed insoddisfatto.
A colpirmi è soprattutto il polemismo esacerbato che riservi alla"banalità con cui, giornalisticamente, a “onor di cronaca” viene affrontato l’argomento fra i più chiassosi del silenzio del mondo".
Come se l'uomo potesse affermare di non necessitare talvalta del piede destro o del sinistro per vivere,dici tu.
Come se l'uomo potesse fare a meno del sensus communis,dico io.
Un sociologismo ozioso?No,non credo.

Il problema,secondo il mio punto di vista,andrebbe impostato diversamente.
Esaurendo la mia breve critica cercherò di farti capire cosa intendo.
Non penso che possiamo permetterci il lusso di liquidare la produzione o un certo tipo di pubblicistica non accademica e per ciò bollarla in modo quasi automatico come paccottiglia banale.
Il nodo è lo stato attuale di tale paccottiglia che solitamente intendiamo definire"produzione culturale".
Mi torna alla memoria un recente editoriale di Ernesto Galli della Loggia dal titolo,forse non d'autore,"Conformismo ghibellino e Italia con troppa politica".
Secondo Galli il riportare sempre tutto,soprattutto fenomeni nuovi ed inediti-come AMA FARE LA MAGGIOR PARTE DELLA CULTURA ITALIANA-all'interno di categorie e dicotomie tradizionali quali Stato-Chiesa,laico-clericale,progressista-conservatore,non fa altro che tradire la propensione di tale cultura a riconfermare sempre e soltanto se stessa e i propri universi valoriali piuttosto che sforzarsi creativamente di leggere la realtà e la novità dei tempi.
Il quesito di Galli della Loggia è di quelli si impongono come macigni."Come è possibile-mi chiedo-non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca,di cui le dicotomie di cui sopra sono parte-sta oggi diventando un reperto archeologico?Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni-e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia capitalistica a tutto il mondo,e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera piùà intima dle bios-tutta la nostra vita sociale,con le sue confortevoli certezze culturlai e i suoi valori,deve essere ripensata e ridefiita?"
Ecco,soltanto in questo senso,così come con chiarezza cristallina fa Galli,credo sia possibile seguire quanto tu affermi nel corso tuo intervento.Non sabarazzarsi della produzine culturale,ma esigere che essa rispetti il tenore delle tematiche che intende affrontare,rivendicando creatività e possibilità.
Scusandomi per non aver rispettato la sinteticità che caratterizza il modo di essere del tuo spazio di riflessione,confido in una tua risposta.

Lorenzo

Simonfrancesco Di Rupo ha detto...

Mi trovo perfettamente d'accordo con il Galli Della Loggia, e sicuramente il discorso così dovrebbe strutturarsi se dovesse avere pretesa di estensione del problema all'intera sfera esistenziale del'uomo e dell'"oggi".
Chiaro dunque che lo spunto, lungi dal prodursi goffamente in un invito ad una "terza via" (ovvero con la doverosa spartita interdisciplinare), riguardasse piuttosto una questione di metodo per il filosofo che legge il giornale. Non avrebbe altrimenti senso leggere la sfaccettatura della vicenda umana attuale (soltanto) alla stregua del povero Epicuro.