venerdì 26 dicembre 2008

a integrazione dell'articolo qui sotto - "come un Icaro in fiamme"

Eros si misura con Kronos e nella sconfitta più letale, canta l'ode alla sua furtività, unica sua vittoria da sempre acquisita. Nel perdere peso in terra, patria del Tempo, s'invola verso il sole.

Come un Icaro in fiamme


EROS : Mi ritrovo ingannato fra le schegge del tempo
dal malsano mio trasporto verso un passato che mi attende
ogni volta che al pensiero richiamo le gioie cieche
dei nostri destini da sempre scissi.
Io Eros conobbi il destino, per poi misconoscerlo grandemente
Da quando son diventato voi, da quando sono diventato Uomo.

KRONOS: L'amore è la bestemmia contro il destino ! Cos'altro sei?

EROS: io sono la fantasia del vento
un bacio è la gloria del secondo
la fortuità dell'ineluttabile
l'esimersi di un istante dal suo senso
la redenzione del sensuale
la stupidità della meraviglia
il colore della vita
il guasto della promessa, la frattura della seduzione
la vera forza del mondo -

Tu, Kronos, sei la misura di ciò che di me ti sconvolge! Ogni religione nasce dal superamento del Bacio. Ogni intelligenza nasce come stupidità verso lo stupore.
Ogni dottrina nasce come dolore dell'amare.
L'amore come libertà delle ali dall'angelo -

Al sol mi volgo come un Icaro in fiamme.


lunedì 15 dicembre 2008

La natura e l'amore fra silenzi e solitudine. Turbamenti di Carducci a confronto

Discostarsi per un momento dall'amato, dalle peripezie e dalle fantasie contingenti e sospendere per breve tempo tutta la propria partecipazione è possibile, a patto che si ritenga la Natura come quello specchio eterno che possa in qualche modo sospirare verità stringenti.
Ogni amore è di certo un cammino, come del resto ogni cammino è un lasciarsi dietro qualche cosa che si ama.

Innanzi, innanzi. Per le foscheggianti
coste la neve ugual luce e si stende,
e cede e stride sotto il pié: d'avanti
vapora il sospir mio che l'aer fende[...]
(notte d'inverno)

Tutto ciò che appare non è incontro. Se solo ci si sofferma per un istante su quel che vuol dire "presente" al di fuori di sé, al di fuori del proprio amare, la natura pare sempre crudele.


Ogni altro tace. Corre tra le stanti
nubi la luna sul gran bianco e orrende
l'ombre disegna di quel pin che tende
cruccioso al suolo informe i rami infranti[...]
(notte d'inverno)


La Natura parrebbe rispondere con silenzi:, ma sia la luna che le ombre cospirano affinché nulla tranquillizzi l'amante, mostrandogli i rami infranti come un malaugurio. Le proiezioni di ciò che si spezza, che si annulla in Natura non sono mai per il cuore dell'amante solo visioni di qualcosa che perisce, ma anzi qualcosa di eternamente vivo che eternamente si mostra come spezzato.

[...]Ed emerge il pensier su quei marosi
naufrago, ed al ciel grida: o notte, o inverno,
che fanno giù ne le lor tombe i morti?
(notte d'inverno)

L'amante giunge fino al pensiero sui morti. Fallita la via che mostrava sottilmente la via dell'eternità. Umano è il suo rapporto con la natura e umano rimane il suo rapporto con ciò che pare si spezzi. Senza alcuno scrupolo pretende di sapere dalla Natura cosa finisca, ma anche cosa sorga. In Carducci questo emerge in maniera eminente, quando uniamo Notte d'inverno con Panteismo:

[...]Io mai no 'l dissi: e con divin fragore
la terra e il ciel l'amato nome chiama,
e tra gli effluvi de le acacie in fiore
mi mormora il gran tutto - Ella, ella t'ama.
(Panteismo)

Tutto diventa dio, quando la Natura suggerisce lo splendore. Ma che lo splendore suggerito sia pari all' "amato nome", ovvero all'oggetto del proprio amore, è pur sempre un artifizio umano. La natura suggerisce ogni via e ogni coloritura degli essenti, ma non necessariamente rimanda l'uno all'altro. Nella nostra esperienza possiamo sì appellarci in poesia alla Natura per celebrare l'amato, ma pur sempre è da ricordare quanto enigma riposi nella Natura stessa e quante amorevoli pitture applica il nostro immaginario: ella, come una Monna Lisa ancor meglio dipinta, ha nel sorriso la luce dell'alba e del tramonto.
In un istante ogni cosa potrebbe sorgere come spegnersi senza che propriamente né l'una né l'altra cosa accada.

mercoledì 3 dicembre 2008

L'insostenibile leggerezza di Milan Kundera

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L'intellettuale stanco, che non ha voglia né interesse di prestare attenzione più a nessuna cosa, l'intellettuale che per qualche mese che si è lasciato con la ragazza a vent'anni ha letto qualcosa di Nietzsche e ha ben pensato di avere fra le mani un buon motivo per non spararsi, sebbene con l'atteggiamento di chi, se avesse la pistola al posto della sigaretta appoggiata alla più esistenzialista delle pose, non cambierebbe di una virgola la sua espressione. L'intellettuale per cui tutto questo è curriculum e ogni cosa da dire a mezza bocca è permessa, o perlomeno, una verità più grande di qualsiasi altra, proprio perché sorniona. Il sogno di essere un sociologo francese mai esaudito, insomma, o un comunista disilluso (o illuso?).
L'insostenibile leggerezza di Milan Kundera, autore de l'insostenibile leggerezza dell'essere (1982) è quella che lo porta ad aprire il suddetto romanzo esponendo l'eterno ritorno nietzschano come una sorta di ricorrenza calendariale; Lowith, Heidegger e Deleuze mettono doppia chiusura al loro sepolcro.
E' tutto riassunto nell'incipit, lo strazio della filosofia sotto la matita del cecoslovacco:

"Parmenide vedeva l'intero universo in coppie di opposizioni[...] uno dei poli dell'opposizione era per lui positivo[..] l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è positivo, la pesantezza o la leggerezza?Parmenide rispose: il leggero è positivo, il pesante è negativo. Aveva ragione oppure no?".

Pardon, ma questo periodo è una sequenza di validi motivi per un voltastomaco inesauribile.
Posto che la lettura di Parmenide è qui di una banalità rivoltante, è anche evidente che l'attenzione per l'essere da parte di Kundera si ferma al momento in cui intende usarne la parola nel titolo. Inoltre: la suddivisione fra polo positivo e negativo sarebbe "puerile", mentre l'unica cosa che conterebbe è se Parmenide abbia "ragione o no"? Questo uso della filosofia alla "pari e dispari" fra due ebeti fanciulli non può funzionare in genere, figuriamoci con Parmenide. Platone impiegò una vita filosofica a discutere Parmenide; Kundera in un passo a pagina 14 vuole risolvere in un un solo "interessante" dualismo il Sentiero del Giorno, l'eternità dell'essere, il fondamento dell'ontologia e tutto il "peso" del Sulla Natura del povero filosofo eleate.
Bene, sino a qui, almeno, abbiamo di che divertirci con il nostro dissenso. Ma il gusto del negativo si rattrappisce un solo secondo dopo, quando, con estrema nausea, leggiamo l'immediato proseguimento della stessa pagina su Parmenide:

"sono già molti anni che penso a Thomas[...] aveva incontrato Tereza per la prima volta circa tre settimane prima in una piccola città della Boemia[..]"

I poli negativi e positivi in Parmenide e poi... Tereza e Thomas?
Assistiamo a questo gioco di isignificanti reportage degli amori fra questi personaggi cecoslovacchi e viaggi fra Praga e Zurigo almeno fino a pagina 40, dove Kundera si risveglia dal torpore dei suoi racconti insipidi e stancanti dando, come risposta al grande problema su Parmenide posto tante pagine prima, una risposta sollevante: " a differenza di Parmenide, per Beethoven la pesantezza era a quanto pare qualcosa di positivo". Il dilemma ontologico parrebbe teoreticamente risolto con questa incontrovertibile verità Kunderiana. Ma l'autore, nella stessa pagina, fa professione di inimmaginata onestà:

"L'allusione a Beethoven era in realtà per Thomas un modo per ritornare a Tereza".

Lo sconforto. E la nostalgia per tutto che non accenni alla filosofia nel romanzo. Proseguendo, la grettezza filosofica di Kundera si deterge, nell'amato viaggio fra gli amori perplessi di Thomas (che ama Tereza), Tereza (che ama Thomas), Franz (che ama Sabina) e Sabina che ama Franz, anche se con l'interessante scarto di qualche mese di stop.
Ma ecco che a pagina 252 ci troviamo di fronte al pericolo di imparare qualcosa di più della filosofia, quando il grande Giovanni Scoto Eriugena viene originalmente ricordato non per le quattro divisioni dell'essere divino, non per la riflessione su fede e teoresi, non per il discorso sulla libertà umana ma per..."la merda" :

"Nelle considerazioni di Scoto Eriugena possiamo troare la chiave di una sorta di giustificazione teologica della merda. Gesù non defecava. [...] nella terza parte di questo romanzo ho raccontato di Sabina in piedi seminuda e con la bombetta in testa accanto a Thomas vestito. Ma c'è una cosa che ho taciuto. Lei[..] immaginò che Thomas la mettesse a sedere così com'era, con la bombetta, sulla tazza del gabinetto, dove lei liberava i propri intestini in sua presenza. Gettò Thomas sul tappeto e già urlava dal piacere".

Potremmo citare l'importanza di Descartes per la vita delle mucche nelle stalle a pagina 294, ma quanto è meglio fermarsi qui?
Il sapere bislacco, lo scrivere uterino e "originale" di chi ha vissuto il novecento come un grande "rutto" della cultura, dove il suono è culla e la digestione vendetta: tutto è possibile, quando ami Dostoevskij e Nietzsche al punto da non curarsi minimanente di ricordarne il senso; l'insostenibile leggerezza dell'essere è a tutti gli effetti uno dei più deleteri sprechi di inchiostro della storia della parola - guai dire pensiero - come del resto ogni romanzo attratto dalla filosofia per quel che basta a un titolo o a una didascalia; è forse per questo che l'uomo e la donna di pensiero innocente e inebetito recita spesso, alla domanda sulle proprie letture: "mi è piaciuto molto l'insostenibile leggerezza dell'essere", come se da questa confessione l'interlocutore dovesse trarre un sintomo di profondità dalla coraggiosa dichiarante.

Ma per carità.



p.s. da notare un'opera postmoderna ( in foto) con cui il pittore torinese Roberto Saporito (in foto) ha inteso in maniera altrettanto saporita il libro sinora citato.

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mercoledì 22 ottobre 2008

Ascoltare queste parole alla rinfusa rigorosamente con Positively 4th street di Dylan in sottofondo.




My smiles get their energy from october's beautiful decadence I got my mind set on never

-lived circumstances I got too many nights on my shoulders I'll never be able to

apologize for that - I really need a trip in the possibilities of the world gotta get a

life gotta joke with friends gotta feel what I need like a free decision while I know

It's not like that but who cares life's for makin' mistakes - happiness in cups and foggy

eyes 'round the bar are platinum satisfactions for days made of stone the new adventure

for everyone might be admitting everyone's limits but I think no one will ever do it in

public as there are too many public appearances, so many that we can't even afford the

minimum of fame we deserve there are no more houses only homes in this net game - they

called it myspace and now all we got is a screen page who longs to possess us through

millions of illusions and I feel quite ironic 'bout that we didn't want human slavery

anymore now the conquest is to be dominated by our desires and I find it really

interesting everybody must get possessed 'cause even god is possessed by our words which

are all stupid.

Questa metà d'ottobre fra notizie e idiozie a colori emana in noi le peggiori chiavi di

lettura per il futuro/ un futuro che non tarda mai ad arrivare/come i nostri aggeggi

grigi e potenti vogliono/ in fondo non è solo questo il motivo per cui ci potremmo

innervosire /le frenesie degli architetti della scemenza ci attaccano in tv /e senza

alcuna storia né gloria accettiamo con gaudio la nostra passività mentre il fetente di

turno si professa amante di valori tradizionali/ mentre mancano 40 secondi ai consigli

per gli acquisti per il popolo dell'intelligenza condivisa/ della macchia oliata della

demografia senza alcuna passione ma pur sempre multiculturale / e mentre l'emancipazione

di forme umane bistrattate si dipanano nella nostra nuova, moderna coscienza

dell'importanza del gay piangente,del viola in faccia e del sesso alla finestra/ ci

sarebbe da chiedersi chi altri e altro busserà alla porta del prossimo reality per fame

dell'applauso facile e scrosciante, aneuronale in cui ben si rappresenta la nostra

società dello stupore circonciso/ in cui ogni stupore altro non è che la soddisfazione di

desideri di plastica/ esiti del mal di pancia di una civiltà dal sangue febbrile e

prosternato/ di una società che ha mangiato benessere e morte con troppa fretta.

la fin est presque loin mais tout les affections humaines que nous avons sont

silencieusement desesperée.

venerdì 3 ottobre 2008

auguri di creatività per chi la cerca

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(Magritte, la condizione umana)

Perché ogni nostra esperienza della realtà è condizionata da ogni nostra prospettiva, da ogni nostra speranza, da ogni nostro senso della bellezza. Dietro alla tela dipinta dalla nostra facoltà di creare può esistere (e non lo sappiamo) o la coincidenza con la nostra previsione, o la totale differenza (una distesa di cemento) o un diversità, seppur bella, da noi non percepita.
Importante rimane sempre creare quella tela, anche se fallace, poiché il semplice sguardo fuori dalla finestra non basta ai cuori più impetuosi e mossi.

venerdì 19 settembre 2008

Poesia alla fine della gola

Passerei volentieri le mie giornate a sfogliare le pagine del mondo
passerei volentieri la vita dalla parte di chi vince
solo per potermi divertire a perdere come so fare
passerei il tempo a guardare il tempo
volerebbe lo spazio fra i miei piedi

nella ricchezza degli dei

riposa il mio destino di vagabondo

per nulla disperato.

martedì 26 agosto 2008

Poesia Libellula

Io sono le pagine più belle di un libro andato in fiamme
io sono l'energia di un foro
l'estraneità di un suono

forse l'opera di un dio ridente
io sono le scuse di una foglia al vento.

Mi aggiro nelle strade dell'invisibile
e mi ritrovo nelle trame del non- detto


io sono il custode di ciò che non si conserva
il guardiano dell'immenso incontrollato

il museo dei ritorni, il canto di un fiore

un fioco lume dentro il fuoco di un sole che di me non s'accorge. -

giovedì 24 luglio 2008

prendere "dualismo" di Arrigo Boito come inno al nichilismo elegante (parti in grassetto rlevanti)

Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo
sono un caduto cherubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l'ale,
verso un lontano ciel.

Ecco perché nell'intime
cogitazioni io sento
la bestemmia dell'angelo
che irride al suo tormento,
o l'umile orazione
dell'esule dimone
che riede a Dio, fedel.

Ecco perché m'affascina
l'ebbrezza di due canti,
ecco perché mi lacera
l'angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m'allarga il cuor.

Ecco perché la torbida
ridda de' miei pensieri,
or mansueti e rosei,
or violenti e neri;
ecco perché con tetro
tedio, avvincendo il metro
de' carmi animator.

O creature fragili
dal genio onnipossente!
Forse noi siamo l'homunculus
d' un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozioso gioco
un buio Iddio ci fe'.

E ci scagliò sull'umida
gleba che c'incatena,
poi dal suo ciel guatandoci
rise alla pazza scena
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col pie'.

E noi viviam, famelci
di fede o d'altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d'acerbo duol.

Talor, se sono il demone
redento che s'india,
sento dall'alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.

L'illusion-libellula
che bacia i fiorellini,
-l'illusion-scoiattolo
che danza in cima i pini,
-l'illusion-fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,

viene ancora a
sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l'anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m'attira
nella profonda spira
dell'estro ideator.

E sogno un'Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell'Ideale
che mi fa batter l'ale
e che seguir non so.

Ma poi, se avvien che l'angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impauriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto:

e sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d'alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
E il cielo, altezza impervia,
derido e di protervia
mi pasco e di velen.

E sogno un'Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse immagini
d'un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmiando vien.

Questa è la vita! L'ebete
vita che c'innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un'ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s'accheta più!

Come istrion, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d'equilibrio
sovra una tesa corda,
tal è l'uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.

(Arrigo Boito, "Dualismo")

mercoledì 23 luglio 2008

L’APPROCCIO DEL NICHILISTA ELEGANTE ALLA STORIA DELLA FILOSOFIA: Nietzsche e lo Schopenhauer come (maleducato) educatore


Nietzsche e lo Schopenhauer come (maleducato) educatore

Quante volte avvicinandosi a Nietzsche lo si riconduce alla linea di rapporto con Schopenhauer? Si noti bene, l’eredità schopenhaueriana del filosofo di Rocken è indiscutibile, ancor più se ci rimettiamo alle semplici ammissioni di Nietzsche stesso e al tributo rappresentato da Schopenhauer come educatore . Ecco che però, un passaggio ben poche volte sottolineato emerge dai primi passi del capitolo noi dotti in al di là del bene e del male:

[…] l’influsso esercitato da Schopenhauer sulla Germania moderna – con il suo sciocco furore contro Hegel è riuscito a estromettere l’intera ultima generazione dal rapporto con la cultura tedesca, la quale cultura, tutto considerato, ha rappresentato un culmine e un affinamento divinatorio del senso storico; ma proprio su questo punto lo stesso Schopenhauer era povero, non recettivo, non tedesco fino alla genialità. (p.106 della edizione Adelphi)

Il problema di Nietzsche non sta nel fatto che egli periodicamente riveda figure intellettuali per lui “paterne” (cfr. caso Wagner) quanto invece nel fatto che egli tenga, quasi maniacalmente, a conservare e gettare in una sorta di metabolismo spirituale l’aristocraticità e la plebeità di ogni pensatore. Con buona pace degli interpreti - mi verrebbe da dire – “conflittualisti”, la storia della filosofia per Nietzsche non deve essere il luogo del “rigetto”. Chi si lascia abbagliare dall’efferatezza con cui egli tratta ora qua ora là taluni o talaltri filosofi non avrà mai compreso il profondo amore che lega Nietzsche ad ogni filosofo. Ma già da solo egli sapeva che tale pericolo risiede in

Quell’acromatopsia dell’uomo utilitario, il quale nella filosofia altro non vede se non una serie di sistemi confutati e una prodiga magnificenza che non ‘serve’ a nessuno. (Ivi)

Ma se già in Aristotele vediamo che “la filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù è il sapere più nobile”( Metafisica I, 2, 982b), anche nel mio articolo di tempo fa sulla “divina inutilità” del filosofo troviamo ragioni per difendere l’inattaccabilità di ogni buon filosofo in quanto tale.

Nessun filosofo ha il diritto, dunque, di figurare sé e gli altri filosofi con la spada di Damocle all’altezza dello spirito.

Detto ciò, cosa ancor più importante sta nel non vivere tale presa di coscienza con quell’ “istinto democratico” al quale il nostro porre ordine occidentale, per così dire, è soggiogato. Bisogna evitare il pericolo più grande che può derivare dal conoscere l’inesistenza della spada di Damocle, ovvero quello che ha “radicalmente pregiudicato la venerazione per la filosofia e ha spalancato la porta all’istinto della plebaglia” (p.106) . Perché anche il “serio” studioso di filosofia può inceppare le sue fortune. Si veda pagina 119 nel capitolo noi dotti di al di là del bene e del male della sopra citata edizione Adelphi:

Insisto nel dire che si cessi finalmente dallo scambiare per filosofi gli operai della filosofia e soprattutto gli uomini di scienza […] Può darsi che per l’educazione del vero filosofo sia necessario che anche lui si sia arrestato una volta su tutti questi gradini ai quali i suoi servitori, gli operai scientifici della filosofia, restano inchiodati; forse deve essere stato anche lui un critico e uno scettico e un dogmatico e uno storico, e oltre a ciò un poeta e un raccoglitore e un viaggiatore e un divinatore di enigmi e un moralista e un veggente e un “libero spirito”, quasi ogni cosa, per percorrere la cerchia dei valori e dei sentimenti di valore umani e per potere scrutare dall’alto verso ogni lontananza, dagli abissi verso ogni altitudine, dal cantuccio verso ogni orizzonte.

venerdì 13 giugno 2008

Cosa può insegnare Epitteto a un nichilista oggi ?

Cosa può insegnare Epitteto ad un nichilista oggi
In una temperatura filosofica dove l'ambiente della ragione non riesce a sondare i fondamenti con la stessa forza della modernità, il nichilista elegante - per come io lo sto intendendo in tutti questi miei appunti - può porsi su un duplice piano d'ascolto:

- il risveglio sull'Essere (ovvero la pazienza teoretica nei confronti dei temi ontologici - dove Severino è per me guida e problema)

- la fronesis come esigenza etica aperta dalla morte di Dio, ovvero la rilettura di temi che hanno edificato il significato della saggezza nella civiltà occidentale, con lo scopo di trattenere nell'ambito umano quelle energie nei confronti del reale da sempre valide a prescindere dagli effetti che queste possono aver portato nel loro calarsi storico.

In merito al secondo punto è stato per me ottimo nelle ultime letture l'apporto di Boezio (di cui parlerò) e di Epitteto (di cui tratto in questa sede).

Cosa può insegnare Epitteto a un nichilista oggi?
Ebbene, Epitteto (50 - 120) può contribuire alla presa di coscienza dei gradi in cui l'uomo può intellettualmente intervenire o meno nella cognizione del reale e della necessità che lo regola. Con fare socratico egli non scrisse nulla, ma il suo pedissequo allievo Arriano raccolse i suoi insegnamenti in quello che poi anche Leopardi rielaborò come Manuale.
L'uomo non può e non deve arrischiarsi nella illusione della sua presa totale della realtà: il concetto di rappresentazione è nel caso di Epitteto il modo per intendere la fallacia del significare immediato degli eventi da parte dell'uomo non filosofo. L'uomo filosofo è invece un ponte fra l'uomo del senso comune e la regola aurea della felicità, là dove per felicità non viene intesa da Epitteto tanto l'esultanza per il successo della contingenza, quanto la partecipazione alla Verità. Tale partecipazione dipende da due facoltà distinte: la Proairesi e la Diairesi.
La prima facoltà riguarda la capacità di discernimento autoteoretico delle rappresentazioni, ovvero la facoltà di gestire razionalmente la ricezione del senso delle cose. Queste sono divisibili in proairetiche nel caso in cui appartengano alla schiera delle entità in nostro potere (desideri, ambizioni, valutazioni etc. )mentre sono aproairetiche quelle non in nostro potere (reputazione, ordine delle cose, morte etc.). La Diairesi è dunque la facoltà di discernere ciò che è in nostro potere da quello che non lo è. E su questo che gioca il piano fronetico della conoscenza in Epitteto – o meglio dell’etica della conoscenza.

Tale piano etico si innesta, per lo stoicismo, nella considerazione per cui le passioni sono l’impedimento dell’adeguamento fra condotta umana e razionalità del Logos. Il nichilista elegante non deve necessariamente seguire tale considerazione, in quanto annovera fra le passioni anche quella noetica nei confronti del vero che ha contraddistinto la storia della metafisica occidentale, sotto la prospettiva nietzscheana della volontà di potenza; è tuttavia possibile rimpiazzare la messa tra parentesi delle passioni con la messa tra parentesi del senso comune, che alla fine dei conti altro non è che la “passione collettiva” che porta la verità dell’essere fuori dalla sua casa in grado decisamente superiore rispetto alle passioni del corpo.

In ragione dunque di un’ “a-patia” positiva e attiva nei confronti del senso comune, ecco dei passaggi indicativi quanto divertenti del nostro compianto Epitteto, filosofo spigliato e ironico, scoiattolo della verità.

Dal Manuale, nella speranza di molti sorrisi :

21. La morte, l'esilio e tutto ciò che appare terribile ti siano quotidianamente dinanzi agli occhi, più di ogni altra cosa la morte: e non avrai mai alcun pensiero meschino né desidererai mai nulla oltre misura.

4. Ogni volta che ti accingi a un'azione, ricorda a te stesso quale sia la sua vera natura. Se esci per recarti al bagno pubblico, predisponiti mentalmente a quello che succede in questi ambienti: la gente che ti spruzza, ti urta, ti insulta, ti deruba. E così, se inizierai col dire: «voglio fare un bagno e mantenere la mia scelta morale conforme a natura», ti disporrai ad agire con più sicurezza. E fai altrettanto per ogni altra azione. Perché in questo modo, se qualcosa dovesse impedirti il bagno, potrai dire prontamente: «non volevo soltanto lavarmi, ma anche mantenere la mia scelta morale conforme a natura: e non ci riuscirò, se mi infastidisco per quel che succede».

41. È segno di scarse qualità naturali dedicare troppo tempo alle cose del corpo: per esempio un eccessivo indulgere agli esercizi ginnici, a mangiare, a bere, a defecare, ad accoppiarsi. Attività che devono restare marginali: tutta l'attenzione va rivolta alla mente.

46. Non definirti in nessuna occasione filosofo e in generale non parlare tra gente comune di principi filosofici, ma fai quello che discende da questi principi: per esempio, a banchetto non dire come si deve mangiare, ma mangia come si deve.[…]

45. Il tale si lava in fretta: non dire «male», ma «in fretta». Un altro beve molto vino: non dire «male», ma «molto». Prima di aver distinto il giudizio che presiede al suo agire, come sai se è «male»? Così non ti accadrà di ricevere le rappresentazioni catalettiche di una cosa e di dare il tuo assenso ad altre.

22. Se aspiri alla filosofia, preparati fin d'ora a essere deriso e schernito dalla gente: «ce lo ritroviamo di colpo filosofo», diranno, e ancora: «da dove ha preso tutto questo cipiglio?». Ma sul tuo volto non vi sia cipiglio; attieniti invece a ciò che ti pare il meglio, come un uomo assegnato dal dio a questo posto. E ricorda che se resterai coerente agli stessi principi, quelli che prima ti beffavano poi ti ammireranno, mentre se ti rivelerai inferiore a essi riscuoterai un doppio dileggio.

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Bibilografia filosofia Emanuele Severino bibliografia , Emanuele Severino (i testi presi in considerazione per la tesi) vita e pensiero

  • La struttura originaria, Brescia, La Scuola, 1958. Nuova edizione, con modifiche e una Introduzione 1979, Milano, Adelphi, 1981]
  • Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, Brescia, La Scuola, 1960
  • Studi di filosofia della prassi, Milano, Vita e pensiero, 1963; nuova ediz. ampliata, Milano, Adelphi, 1984
  • Ritornare a Parmenide, in «Rivista di filosofia neoscolastica», LVI [1964], n. 2, pp. 137-175; poi in Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, 1972, pp. 13-66; nuova edizione ampliata, Milano, Adelphi, 1982, pp. 19-61
  • Essenza del nichilismo. Saggi, Brescia, Paideia, 1972; seconda edizione ampliata, Milano, Adelphi, 1982
  • Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1978; nuova edizione ampliata, ivi, 1981
  • Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rusconi, 1979; seconda edizione, ivi, 1988; nuova edizione ampliata, Milano, Rizzoli, 2002
  • Legge e caso, Milano, Adelphi, 1979
  • Destino della necessità. Katà tò chreòn, Milano, Adelphi, 1980; nuova edizione, senza modifiche sostanziali, ivi, 1999
  • A Cesare e a Dio, Milano, Rizzoli, 1983; nuova ediz., ivi, 2007
  • La strada, Milano, Rizzoli, 1983
  • La filosofia antica, Milano, Rizzoli, 1984; nuova ediz. ampliata, ivi, 2004
  • La filosofia moderna, Milano, Rizzoli, 1984; nuova ediz. ampliata, ivi, 2004
  • Il parricidio mancato, Milano, Adelphi, 1985
  • La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, 1986; nuova ediz. ampliata, ivi, 2004
  • Traduzione e interpretazione dell’«Orestea» di Eschilo, Milano, Rizzoli, 1985
  • La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Adelphi, 1988
  • Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 1989
  • La filosofia futura, Milano, Rizzoli, 1989; nuova ediz. ampliata, ivi, 2005
  • Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990; nuova ediz., ivi, 2005
  • Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti, Firenze, Sansoni, 3 voll.
  • Oltre il linguaggio, Milano, Adelphi, 1992
  • La guerra, Milano, Rizzoli, 1992
  • La bilancia. Pensieri sul nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1992
  • Il declino del capitalismo, Milano, Rizzoli, 1993; nuova ediz., ivi, 2007
  • Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Milano, Rizzoli, 1994
  • Pensieri sul Cristianesimo, Milano, Rizzoli, 1995
  • Tautótēs, Milano, Adelphi, 1995
  • La filosofia dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1996
  • La follia dell'angelo, Milano, Rizzoli, 1997; nuova ediz., Milano, Mimesis, 2006
  • Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1998; nuova ediz., ivi, 2006
  • Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998
  • La buona fede, Milano, Rizzoli, 1999
  • L’anello del ritorno, Milano, Adelphi, 1999
  • Crisi della tradizione occidentale, Milano, Marinotti, 1999
  • La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell'esistenza, Milano, Rizzoli, 2000
  • Il mio scontro con la Chiesa, Milano, Rizzoli, 2001
  • La Gloria, Milano, Adelphi, 2001
  • Oltre l’uomo e oltre Dio, Genova, il melangolo, 2002
  • Lezioni sulla politica, Milano, Marinotti, 2002
  • Tecnica e architettura, Milano, Cortina, 2003
  • Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli, 2003
  • Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005
  • Nascere, e altri problemi della coscienza religiosa, Milano, Rizzoli, 2005
  • La natura dell'embrione, Milano, Rizzoli, 2005
  • Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli, 2006
  • L'identità della follia. Lezioni veneziane, a cura di Giorgio Brianese, Giulio Goggi, Ines Testoni, Milano, Rizzoli, 2007
  • Oltrepassare, Milano, Adelphi, 2007

sabato 7 giugno 2008

a seguire un proseguimento parossistico sul tema del nichilista elegante in due passi:

- L'inquietudine dell'eleganza I [con Nietzsche]
- L'inquietudine dell'eleganza II [con Cioran]

martedì 3 giugno 2008

Dio e la stanchezza

Questa cosa che ognuno di noi si debba accasciare ogni giorno (ovvero ogni notte al letto) merita più riflessione.

E' incredibile

come
noi siamo stati in grado di creare dio

mentre con la nostra debolezza ogni notte ci adagiamo nel nulla del sonno.

- O anche dio dorme

o noi abbiamo poca fiducia nei nostri mezzi. -

venerdì 23 maggio 2008

un pensiero in autobus per Gunther Anders mentre guardo la gente all'uscita di un supermarket e ascolto i discorsi di due giovani atei inconsapevoli

Quest'antropocentrismo che vuole l'uomo e il suo dio cartaceo protagonisti della storia trova più spazio fra i suoi contestatori che fra i suoi promotori, oggi. Bizzarro.
Non vogliamo più dio perché altre nostre produzioni lo sostituiscono. Ovvero vogliamo sempre dio, magari con una scadenza più controllabile.

lunedì 19 maggio 2008

Cosa ho


Reti di nuvole sul mio anno
guadare con forza il fiume
fino all'ultimo schizzo d'acqua

dipingersi nell'ignoto

diventare l'ignoto

subire se stesso

come già é

inventarsi il patimento

gli altri patimenti fan ridere

salutarli

con una rinnovata libertà

di far nulla

con il mondo ai tuoi piedi

senza nulla schiacciare

amare il ricordo senza nulla ricordare.


*il Vate inutile*

lunedì 5 maggio 2008

aforisma #487

Non a caso si dice "provare" per intendere la percezione e per intendere il tentare: si "prova qualcosa"; in qualche modo un'emozione è sempre un tentativo - del tutto smarrito - di sentimento.

mercoledì 30 aprile 2008

vita o morte: quale l'inconveniente? Passare per Leopardi con il pensiero a Cioran

Prendiamo un frammento della parte 24 delle Operette Morali del Leopardi:

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico. Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero e tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca (n.61), alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino.

E' proprio nella parola che chiude questo passaggio che risiede la chiave del problema. Il destino. Come può nascere un pensiero che veda la vita come un'inconveniente -capovolgendo così l'umano senso comune che vede nella morte tale momento - senza la nozione di un destino inteso come necessità originaria, come dispiegamento d'una struttura incontrovertibile ed incontrovertita - senza Dio? A riguardo lo stimolo è rivolto all'approfondire meglio l'intendimento leopardiano di Deus sive natura.
Oltre a ciò va però posta a problema l'intera umoralità (sottesa alla profonda consapevolezza) che il Leopardi conferisce a Tristano, il quale se la prende con l'umanità come "marito innamorato" e tradito:verrebbe da chiedersi quanto anche Tristano si senta, in fondo, tradito dall'uomo tradito. La posizione del Tristano, del filosofo consapevole - con il beneficio della metafora ma evitando sterili e nauseanti psicologismi - parrebbe proprio quella dell'amico, innamorato aspramente della vita e caldamente dell'amico che da essa viene tradito. La più grande infelicità è dunque quella nobile dell'amico, il più solitario amante del Tutto. Non c'è tedio, ma assedio, al cuore.

Per l'appunto stretto appare il legame amicale, a questo punto, con Cioran, il quale in un punto dice:

Noi non corriamo verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante. Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all'inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male, è però dietro, non davanti a noi.
(De l'inconvénient d'etre né, p.10)

Ma il passaggio che, unito a questo punto, raddoppia l'enigmaticità dell'argomento e dei due autori presi in esame, è il seguente :

Scuotere la gente, svegliarla dal suo sonno, pur sapendo di commettere in tal modo un crimine e che sarebbe mille volte meglio lasciarvela perseverare, poiché comunque, quando si sveglia, non si ha nulla da proporle...
(De l'inconveniént d'etre né, p. 178)

Ecco, dunque, l'essenza del turbamento amicale. Il nichilista elegante, per riprendere in mano un concetto più volte da me affrontato in passaggi precedenti, non può non tenerne conto in una forte tensione problematica. Un' autocoscienza del Nulla.

Simonfrancesco Di Rupo

martedì 29 aprile 2008

aforisma #486

Sempre più credo che la nostra esistenza sia imbrigliata nella necessità, nella totale mancanza di libertà - non un disegno, ma una macchia d'inchiostro che più in là non va.

sabato 26 aprile 2008

Raccontacene un'altra, zio Monsignor Giovanni della Casa, uomo di fede e ragione del 500

"Lo invitare a bere (la qual usanza, sì come non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè "far brindisi") è verso di sé biasimevole e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso, sì che egli non si dèe fare; e, se altri invitarà te, potrai agevolmente non accettar lo 'nvito e dire che tu ti arrendi per vinto, ringratiandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, sanza altramente bere. E quantunque questo "brindisi", secondo che io ho sentito affermare a più letterati uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia, e come che essi lodino molto un buon uomo di quel tempo che ebbe nome Socrate, per ciò che egli durò a bere tutta una notte quanto la fu lunga a gara con un altro buon uomo che si faceva chiamare Aristofane, e la mattina vegnente in su l'alba fece una sottil misura per geometria, che nulla errò, sì che ben mostrava che 'l vino non gli avea fatto noia; e tutto che affermino oltre a ciò che, così come lo arrischiarsi spesse volte ne' pericoli della morte fa l'uomo franco e sicuro, così lo avezzarsi a' pericoli della scostumatezza rende altrui temperato e costumato, e, perciò che il bere del vino a quel modo, per gara, abondevolmente e soverchio è gran battaglia alle forze del bevitore, vogliono che ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza e per avezzarci a resistere alle forti tentationi e a vincerle: ciò non ostante a me pare il contrario et istimo che le loro ragioni sieno assai frivole"

Monsignor Giovanni della Casa,1551(forse)

Non c'è libro più spassoso e orribile al contempo del "Galateo de' costumi".
Quanto mi diverte immaginare il povero Giovanni tutto contrito a dirsi cose tipo :

"sto sbucciando la patata con la mano destra- partendo dalla parte di buccia più matura-però la gamba sinistra non poggia a terra-la veste s'attorciglia al livello dell'anca-le sopracciglia non attendono al meridiano di Greenwich " etc. etc.


Ma pensiamolo, il poveretto, questo romantico orologiaio del bon ton a dosi ingestibili, catapultato nella nostra epoca: il primo copriwater abbassato dalla moglie gli varrebbe ben bene il più schietto degli infarti.

pausa thé delle 17.01 con L'Inno alla Gioia di Schiller e il "buon senso" di Holbach

Prendere questa parte che si è ritenuta più densa e farne l'uso che se ne vuole:

Freude trinken alle WesenAn den Brüsten der Natur;
Alle Guten, alle BösenFolgen ihrer Rosenspur.
Küsse gab sie uns und Reben,Einen Freund, geprüft im Tod;
Wollust ward dem Wurm gegeben,Und der Cherub steht vor Gott!
Froh, wie seine Sonnen fliegenDurch des Himmels prächt'gen Plan,Laufet, Brüder, eure Bahn,Freudig, wie ein Held zum Siegen.
Seid umschlungen, Millionen.Diesen Kuß der ganzen Welt!Brüder!
Über'm SternenzeltMuß ein lieber Vater wohnen.Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?Such'ihn über'm Sternenzelt!Über Sternen muß er wohnen.


ovvero:

Gioia al sen dell'Universo
Posson tutti i vivi aver,
Vanno il buono ed il perverso
Pel fiorito suo sentier.
Ebbe ognun fino alla morte
Vino, amore ed un fido cuor;
Vollut'a fu al verme in sorte,L'angel gode in te, Sinor.
Van gioiosi nella gloriaMondi, Luce e vita a dar,
Ite, figli ad esultar
Come prodi in gran vittoria!
Siate avvinti, o millioni,Nella gran fraternit'a!
Figli! Sommo un padre sta Sopra gli astri e sopra i tuoni.
Vi prostrate, millioni?
Senti Iddio, mondo, tu?
Volgi il guardo sopra gli astri,Sopra gli astri sue regioni.


La curiosità sta nell'immaginare la reazione di Holbach agli ultimi due versi.
Ecco di seguito un passo tratto dal "buon senso"

11 • Con la religione, dei ciarlatani sfruttano l'insensatezza degli uomini

Colui che, fin dall'infanzia, ha preso l'abitudine di tremare ogni volta che sente pronunziare certe parole, ha bisogno di quelle parole e ha bisogno di tremare: per ciò stesso egli è più incline a dare ascolto a chi alimenta i suoi timori, che a chi tenta di rassicurarlo. Il superstizioso vuole aver paura, la sua immaginazione lo richiede; si direbbe che nulla teme quanto di non aver nulla da temere.
Gli uomini sono dei malati immaginari: dei ciarlatani bramosi di approfittarne si dànno da fare per mantenerli nella loro insensatezza, in modo da lucrare la ricompensa delle loro cure. Ai medici che ordinano un gran numero di medicine si dà molto più ascolto che a quelli che raccomandano un buon regime di vita, o che lasciano agire la natura.

12 • La religione seduce l'ignoranza suscitando la meraviglia

Se la religione fosse chiara, avrebbe molto meno attrattiva per gli ignoranti. Essi hanno bisogno di oscurità, di misteri, di terrori, di favole, di prodigi, di cose incredibili che li facciano sempre lavorare di fantasia. I romanzi, le leggende tenebrose, i racconti di fantasmi e di stregoni esercitano sulle menti del volgo ben più fascino che le storie vere.



Che gioia, per l'appunto, fare le presentazioni ai filosofi, farli parlare e innervosire con il solo privilegio della fantasia!
Divertissement da quattro soldi, lo so - ma anche il filosofo più cupo prende il thé alle 17.01 -

venerdì 4 aprile 2008

frammento di un mio studio su de Sade

Il “divin Marchese” dallo spirito “più libero” e dal corpo “”più rinchiuso”.

“Sì, sono un libertino, lo riconosco:

ho concepito tutto ciò che può essere

concepito in quest’ambito ma non ho

certamente fatto tutto ciò che ho concepito

e non lo farò certamente mai.

Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino.”

(de Sade, lettera alla moglie del 20 febbraio 1791)

Nella nota frase citata in esergo il Marchese de Sade ha lasciato ai posteri una dichiarazione utile a ben raffigurarlo in guisa pari se non superiore al suo già eloquente epitaffio[1]:

Passante/ inginocchiati per pregare/ accanto al più sfortunato degli uomini/ Egli nacque nel secolo scorso/ e morì in quello presente/ il dispotismo dal volto odioso/ gli fece guerra in ogni tempo/ Sotto i re questo mostro orrendo/ s’impadronì interamente della sua vita/ Sotto il Terrore riapparve/ e mise Sade sul bordo dell’abisso/ Sotto il Consolato risorse/ e Sade ne fu ancora la vittima.

Partire dalla morte di qualcuno per sintetizzarne una biografia pare inusuale ma così non è per de Sade, morto nel 1814. Autore dalla fortuna postuma, come sovente accade per autori “non convenzionali”, è stato fatto rivivere come simbolo tutelare dai romantici, dai cosiddetti poeti maledetti, dai nichilisti, dai surrealisti e in maniera piuttosto “accentuata” ( per non dire deviata e fuorviante) dai satanisti[2] e dagli occultisti[3] molto più spesso come “eroe negativo”, o meglio come eroe del negativo. Basti pensare all’origine delle parole “sadico”; “sadismo”, per comprendere il tipo di riverbero che de Sade ha avuto sinora.

Siccome ciò si discosta dal concetto di filosofia morale “al di là del bene e del male” prima esposto, mi è parso “giusto” partire dalla morte di de Sade per come egli la intendeva.

L’idea di de Sade come “eroe negativo” scricchiola. E non poco. “Negativo e positivo”; “bene e male” sono polarità che nella vita di de Sade hanno visto forti scuotimenti, come forte è la confusione possibile nell’identificarlo da una sola parte; nella figura di eroe pare piuttosto inconguente e fuori luogo, quando si considera che in settant’anni di vita ne passò ben trenta fra carceri e manicomi; fu perseguitato da tutti i regimi: monarchia, Rivoluzione e Napoleone. Nato il 2 giugno 1740 a Parigi, Donathien-Alphonse-Francois de Sade attraversò il secolo dei grandi cambiamenti, come del resto ne visse pure lui: nato con l’illuminismo, giovane capitano della Cavalleria Reale partecipa alla “guerra dei sette anni” (1756-1763), dopo la quale sposa Renée de Montreuil. Nello stesso anno (1763), dal congedo dalla Cavalleria e dal matrimonio ha inizio l’epopea tormentata di questa singolare personalità dalla reputazione di libertino, quando viene rinchiuso nel torrione di Vincennes con l’accusa di “deboscia reiterata”. Libertino e vizioso come molti all’epoca soprattutto nella sua casta impunita, visse e fu a tal proposito un’eccezione: incarcerato svariate volte con accuse di sodomia e varie pratiche tipiche del libertinaggio di certo non avulse dalle abitudini di molti che tuttavia non valsero loro eguali persecuzioni. Evidentemente il successo retroattivo di quest’autore è da rintracciarsi nell’ottima capacità artistica nello scrivere, di cui, a dispetto di quanto si parla del suo libertinaggio, si accenna ben poco. Se v’è un risvolto positivo - e vi è - nel suo terribile stato di eterno prigioniero è proprio quello che gli ha reso possibile di esprimersi come ottimo scrittore e filosofo, oltre che come “sporcaccione”, come invece era ritenuto essere soprattutto dalla suocera, che per prima lo volle rinchiuso a Vincennes. I rapporti con la moglie, come testimonia la corrispondenza, erano invece buoni e sinceri.

Il “divin Marchese”, come lo ha appellato Charles Baudelaire, ha avuto tra i suoi detrattori Ugo Foscolo[4], Chateaubriand, Claudel. Apprezzamenti e stima invece, oltre che da Baudelaire, da Stendhal, Flaubert, Wilde, Nietzsche, Dostoevskij, Kafka, Camus e diversi altri. Se il “lasciapassare” di queste autorità intellettuali non ha comunque riscosso grande successo nelle storie della filosofia “ufficiali” del ‘900 e nell’editoria che ha più volte ostacolato per lo più la pubblicazione dei titoli, Benedetto Croce ( che è invece reputatissimo – a buona ragione – dalle une e dall’altra ) ha osservato, con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue: “Il Marchese de Sade asserì dure e coraggiose verità, di quelle verità da cui si suol torcere il viso, quasi che in tal modo si riesce ad annullarle”.

Se per Apollinaire abbiamo a che fare con “lo spirito più libero di tutti i tempi”, per Jean Paulhan egli è “in ogni caso, il corpo più rinchiuso”.[5]

E’ parso particolarmente importante citare in esergo il passo della lettera alla moglie. Innanzitutto, per mettere in luce il volto più che umano dell’uomo che si rivolge con onestà alla donna della propria vita, pur confessandole verità cocenti. In secondo luogo, per la data (1791), la stessa in cui l’opera “Justine” venne pubblicata, ove, come ora verrà esposto, proprio alla Donna e al suo erotico rapporto con la natura viene affidata l’esemplarità del manifestarsi delle passioni – e delle loro verità – a fronte delle quali la filosofia morale deve sapersi dimostrare sufficientemente rabdomante.


[1] Che poi decise di non pubblicare, per sfiducia nei confronti di chi, a suo parere, non l’avrebbe comunque mai inciso. Ciò può essere indicativo per poter immaginare il tipo di rapporto che il de Sade uomo aveva con gli effetti del de Sade autore sui suoi contemporanei: in un certo qual senso nemmeno la sua morte aveva “legittimità” di poter essere espressa in un qualcosa scritto da egli stesso.

[2] Cfr. Anton Szandor LaVey (1930 – 97), fondatore della Chiesa di Satana, che legge de Sade rintracciando nei suoi scritti tratti simili ai propri fondamenti ideologici che hanno centralità nella figura di Satana visto come archetipo più che come entità reale. Questo mio articolo vorrebbe porsi al di là di quelle che potrebbero essere interpretazioni affrettate e fin troppo esasperate da suggestioni, anche se aderenti al filosofo in questione. Stessa vale per gli occultisti nella seguente nota.

[3] Cfr. Antonio D’Alonzo. L’Occultismo moderno tra Eliphas Lévi ed Aleister Crowley. D’Alonzo mette in relazione i principi thelemici del celebre occultista Crowley (1875-1947) con l’ “ateismo” di de Sade.

Analoghi riferimenti “esoterici” vengono fatti da Fulvio Rendhell in “Lilith la sposa di Satana nell’Alta magia” dove la figura di Lilith viene paragonata alla Juliette di de Sade (Juliette è la sorella di Justine, ovvero colei di cui mi occuperò in questa sede) e da Austin Osman Spare (1889-1956), occultista appartenuto all’Ordine Ermetico dell’Alba d’Oro, il quale lega de Sade alle sue teorie sulla magia sessuale.

[4] A quanto pare si vergognava addirittura di pronunciarne il nome.

[5] Chiaramente ho intitolato il paragrafo dall’ensemble di queste citazioni.

giovedì 3 aprile 2008

una fra le chiacchierate con Cioran

In un passo eccelso, E.M. Cioran ci dice:

"Nessuno più di me ha amato questo mondo, e tuttavia, me l'avessero offerto su un vassoio, anche da bambino avrei esclamato: ' troppo tardi, troppo tardi!'"


Ecco che quello "scivolare" menzionato nell'articolo precedente, trova una sua via. In un grande nichilista come Cioran (nel senso più filosofico) c'è spazio, fra considerazioni sull"inconveniente d'esser nati",per un luogo d'amore per la vita e di rimembranza dell'epoca dello stupore per il mondo, ovvero l'infanzia. La filosofia si nutre d'infanzia, e l'infanzia costruisce involontariamente il senso della filosofia nell'uomo. Sì, davvero "l'enfant est le père de l'homme"(Rousseau) nella misura in cui già dalle prime scorribande dello spirito il Tutto non appare che come un elemento naturale adagiato da chissà quale forza sul proprio mondo spirituale.
Quale romantica passione, nel legame trovato fra infanzia dell'anima e infanzia del filosofo. Ogni rimembranza porta con sé uno sfregamento della sfera dell'eternità. Ciò che lega la potenza delle nostre intuizioni passate con la potenza delle intuizioni presenti ci catapulta in ogni momento al di là di noi - del tempo, della verità. Eleganza.

lunedì 31 marzo 2008

Per un nichilismo elegante

UNE NINCE CRISTAL
****
Per un nichilismo elegante

Come non nutrirsi di queste parole :
« Sur une nince cristal, l’hiver conduit leurs pas :
le précipice est sous la glace
telle est de nos plaisirs la fragile surface
glissez, mortels, n’appuyez pas. »
(Pierre Charles Roy)

Se “sotto il ghiaccio” si cela senza neanche troppo nascondimento il “precipizio” del nulla, se quel “sottile cristallo” posto dall’ “inverno” pone l’uomo nella condizione del pericolo di caduta irreversibile, allora ciò può essere ben ripensato nel clima del nichilismo odierno. Se essere nichilisti oggi può voler dire anche ripensare continuamente tale condizione, ecco che l’invito “Glissez, mortels, n’appuyez pas/ scivolate, mortali, non appoggiatevi” appare come uno fra i moniti più ricchi possibili. Il nichilista oggi corre il continuo rischio di specchiarsi, attraverso quel sottile cristallo, quasi per cogliere il nulla come un’occasione per verificare la propria narcisistica nullità. Ma il nulla non ama aspettare le nostre vanità, non ci lascia giocare al Dorian Gray dell’occulto troppo a lungo. Che tutto sia indifferente, che appaia l’assommarsi delle differenze in una coincidentia (per così dire) perennis non è che l’epifenomeno della nostra volontà di potenza. Facciamo coincidere essere e nulla ancor più palesemente, nella civiltà dell’immagine, dell’esplosione dei simboli, della persuasione della libertà. Non c’è cosa più ordinaria e ordinata del caos: questa la lezione della postmodernità per come lascia apparire un’intera civiltà nel suo marasma di libertà tiranna.
Se c’è uno scritto valido, fra i pochissimi in uscita in questo periodo, ecco che dobbiamo sottolineare questo ottimo “Horror Pleni. L’(in)civiltà del rumore” di Gillo Dorfles, bellissimo filosofo ora 98enne. Possiamo igienizzare il nostro nichilismo tramite queste sue chiare parole: “In contrasto con l’antico Horror Vacui dell’uomo preistorico che colmava ogni angolo della sua caverna con immagini autoprodotte, oggi l’orrore del troppo pieno corrisponde all’eccesso di rumore sia visivo che auditivo, che costituisce l’opposto di ogni capacità informativa e comunicativa”. Forse c’è “troppa creatività”.
Ecco che dunque l’uomo si sofferma, per effetto di quell’epifenomeno della volontà di potenza prima menzionato, su quel sottile cristallo di Pierre Charles Roy; l’Horror Pleni di Dorfles è uno spettacolo troppo ghiotto per l’uomo di questo nichilismo odierno. Il pericolo di sentirsi sgretolare il ghiaccio sotto i piedi è la fascinazione ultima a metà fra contraddizione e coerenza, a questo punto. Il nichilismo è questa oscillazione fra contraddizione e coerenza, è questa la mina all’epistéme.
Così dicendo parrebbe dunque che l’invito a “scivolare e non appoggiarsi” non sia altro che un ultimo drammatico invito cristiano al ritenersi dalla perdizione. Ma così non è. L’invito dice: che i mortali non si appoggino al fragile cristallo del ghiaccio per sapere quanto è consistente, cioè per conoscere la verità, ma scivolino via: ben presto il ghiaccio si spezza. Il punto è: come sappiamo che il ghiaccio si spezza? Quale esperienza storico-filosofica abbiamo sulla groppa per poterci fornire questa conoscenza? Ebbene, tutti i costrutti metafisici contro i quali il nichilismo stesso si scaglia. Ogni sapere, o più precisamente ogni epistéme, non ha fatto altro che corazzarsi di un ghiaccio inconsistente, che puntualmente si spacca al di sotto dell’acutezza della filosofia asistematica – i padri del nichilismo contemporaneo (Leopardi e Nietzsche) lo sanno molto bene.
Ecco allora che questo nuovo specchiarsi, questo nuovo appoggiarsi accettando lo spettacolo dell’Horror Pleni non fa che proseguire il percorso programmatico della nostra alienazione. Si può dunque essere nichilisti in maniera più elegante – ovvero possiamo scivolare? O forse dovremmo convincerci che il nichilismo non è un “periodo” ( e ancor meno una scelta di stile) ma l’istanza fondante del nostro rapporto con la consistenza del ghiaccio?
Lascio il problema aperto.

Simonfrancesco Di Rupo

sabato 22 marzo 2008

L'Artiglio della santità. L'insana perfezione di Gloria Degli Estinti

(Quadro letterario, inchiostro su carta,romanzo di 1 pagina)


L'ARTIGLIO DELLA SANTITA'.

L'insana perfezione di Gloria Degli Estinti


Quando sul palazzo di famiglia s'abbatteva il primo sole Gloria Degli Estinti era già sempre levata; ogni dì, all'ultimo rossore ingenerato dal buio notturno, ella sentiva il richiamo della vita.
Quanto quel rossore le assomigliava! Il confuso nero della sua anima partoriva così spesso quella coloritura sulle sue gote, ogni qual volta qualcuno ambiva a portarla al di fuori della sua notte. Bellezza superba, tentativo riuscito di una natura sagace, aveva i capelli e lo sguardo più noti alle voluttà d'ogni sorta di Casanova. Ma ella, mente fervida e tremebonda, avvertiva a miglia di distanza l'insulso gioco che l'eros sottopone a noi tutti. Per un tragico ed elevato spiraglio di libertà ferita ella sapeva che sottraendosi a tale giuoco promuoveva al mondo la più terribile e feroce delle ingiurie: la donna casta e santa, ovvero quello slancio del tutto passionale di rivendicazione umana della propria capacità di fermare l'umana vicenda. Donna non come grembo della prosecuzione, ma donna come stallo e fermo dell'insensato e folle persistere sulla Terra. Sublime sensazione quella di colei che si sottrae, da bellissima e cangiante. E quanti uomini sarebbero morti se solo Lei su di essi avesse effettuato la minima delle loro fantasìe!
Ma omicida ella non era: semmai rapace. L'artiglio della santità le era peculiare. Quanto acume necessitava, ogni dì, la cura del suo aspetto e della sua sensualità. Quella sensualità che noi conosciamo esservi in dio, che ognora ci chiama e si nasconde. Quel malefico sottoporre l'interiorità al sobbalzo della possibilità d'un senso e d'un disegno.
Ma gli uomini s'ingannan sempre su dei e donne, poiché sol un segno ne avvertono, o ancor più il silenzio; e sol da questi silenzi e sogni essi disegnano il mondo che vorrebbero con altra firma.
Gloria Degli Estinti fermava il mondo: quello possibile e quello architettato. La sua esistenza era dipinta da ciò che lega l'aurora col crepuscolo, e mai nome era più appropriato del suo, per richiamarci all'idea quella forza insita nello sguardo della Bellezza che non si offre.


Simonfrancesco Di Rupo, notte fra 21 e 22 marzo.

domenica 16 marzo 2008

Il pensiero d'una Scintilla

Perché dalla notte di una Scintilla spero se ne tragga una grande Notte
e se ella ha dovuto soffrire, che noi stessi se ne soffra con garbo
Poiché poesia mia or non vale quanto il suo vagar per questo sonno
le dono il momento mio interiore di scoperta del Suo Valore:

"Sovente in queste rive/che,desolate, a bruno/veste il flutto indorato, e par che ondeggi,/seggo la notte; e su la mesta landa/in purissimo azzurro/veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,/cui di lontan fan specchio/il mare, e tutto di scintille in giro/per lo vòto seren brillare il mondo." (Giacomo Leopardi)

Sol da qui e non oltre La potei chiamar Scintilla.

Sol così, non oltre, potrei parlarne

poiché mai la accarezzai.

Dialogo fra La Voce e Il Sospiro

DIALOGO FRA LA VOCE E IL SOSPIRO.

Un uomo, percosso dalle sue sconfitte, s’accasciò e vide le sue componenti arrovellarsi l’una contro l’altra. Fra tutte ebbero la meglio in breve tempo, prima d’ogni azione, La Voce e Il Sospiro.

LA VOCE: O uomo, io parlo da te...

IL SOSPIRO: O uomo, o voce, io parlo per voi.

LA VOCE: Cosa ci separa, Sospiro? Tu, boia dei miei tempi, acuto estirpatore delle mie sensatezze, oh potessi mai più sopraggiungere in ogni mio silenzio!

IL SOSPIRO: Già ora stai parlando troppo. Tu misconosci ognora il tuo compito. Il pensiero procura problemi su cui agire e patire, e tu, invece, parlasti.

Il gelo si sovrappose alla discordia. Lo ruppe La Voce:

LA VOCE: L'uomo ben poco può senza di me.

IL SOSPIRO: L'uomo ben poco può contro di me.

La Voce, colpita da quest'ultima frase, si aprì e così si espresse:

LA VOCE: Sii mio amico in quest'ora di sconforto.

IL SOSPIRO: Non posso esserti amico, posso solo esserti appresso, non affianco.

LA VOCE: Orsù,con l'uomo abbiamo sempre a che vedere, entrambi. Infine dimmi: cos'è che ci avvince ?

Il Sospiro tacque per breve tempo, poi giunse alla verità:

IL SOSPIRO: “I debiti di un'anima irrisolta".

Simonfrancesco Di Rupo

martedì 11 marzo 2008

poesia

IL GIOCOLIERE DI VETRO.

Dalle mani fatate del giocoliere di vetro

escono giochi d'infranta virtù

delle sue mani fatale è il rintocco

di quando cadenti

s'infrangon pure loro.

(mescolate così a terra con l'opera loro, così tragicamente amata)

lunedì 10 marzo 2008

poesia

Mai l'amore d'opinar mi chiese
ma solo accordata riverenza.


M'inchinai sin dagli albori

ai primi raggi d'autorità

della femminea aurea incandescente

- che mi trafigge -

abbandonai le mie virtù e le donai

al calderone di quella prigione nera

che è la libertà.

Non più me, di fronte all'abisso

del becero abbandono.

domenica 9 marzo 2008

AMMAZZARE IL TEMPO?

AMMAZZARE IL TEMPO ?

***

Una distopia incerta e autocritica

“Ammazzare il tempo”. Quanto, in questo apparentemente semplice “modo di dire”, si nasconde invece un modo del dire, del nostro dire circa il nostro rapporto con la temporalità.

I problemi ad esso annessi nel contesto della civiltà della tecnica sono stati estesamente presi in esame dal filosofo Gunther Anders, ancora non considerato appieno per il suo merito.

Ho infatti trovato nel secondo tomo della grande opera L’uomo è antiquato una considerazione molto affine ad alcune mie riflessioni: “l’obiettivo asintotico dei nostri sforzi odierni è la soppressione del tempo”. Ecco che quel modo di dire trova in questo caso una sua espressione filosofica; “ammazzare il tempo” è il proposito dell’uomo nell’età della tecnica, di quel “civilizzato” immerso nella ruota sfrenata del fare. Ma il movente, di questo desiderato delitto, che contorni assume in questo tipo d’uomo? Anders sottolinea: “il desiderio è lasciarci il più rapidamente possibile qualcosa alle spalle perché tutto, in quanto dura, dura troppo e per questo motivo è qualcosa che ruba tempo”. In questa cornice l’uomo è gettato nella insofferenza più marcata per il divenire, ovvero per quella struttura del mondo ritenuta inequivocabile. Il divenire non solo angoscia l’uomo, ma lo rende dipendente da esso. Si vuole uccidere ciò che ci fornisce le armi. Il tempo è qualcosa che “va guadagnato”, e l’unico modo per ottenerlo è ridurlo, quando lo si ha, ad un minimum. Questo il paradosso schizofrenico dell’uomo nell’età della tecnica. Come si lega quest’uomo all’ubermensch nietzscheano? Che tensione verso la morte cambia (se cambia) rispetto alla tradizione, nella sua essenza? E’ proprio questo l’uomo che supera la convalescenza di Zarathustriana memoria?

Rimango nel dubbio, e rammento le sue sagge parole proprio ne Il convalescente, quando viene interpellato dall’aquila e il serpente: “L’uomo è verso se stesso il più crudele degli animali; e quando udite coloro che chiamano se stessi ‘peccatori’ e ‘portatori di croce’ e ‘penitenti’, badate di non farvi sfuggire la voluttà contenuta in questi lamenti ed accuse!”.

Ad ogni modo Gunther Anders, in una felice considerazione, avvicina l’uomo odierno più a colui che vive “nel paese della Cuccagna, cioè senza mediazione, cioè senza più aver bisogno di gettare un ponte di tempo tra desiderio e appagamento.” E altrove: “con l’abbreviarsi delle nostre azioni, appunto, guadagniamo una quantità di tempo, di cui non sappiamo fare nulla, talmente tanto tempo che, terrorizzati dall’horror vacui, saremo costretti a suddividere questo vacuum in attività il più possibile numerose che cancellano il tempo”. Ma il grande paradosso ottimamente fatto emergere dal nostro autore riguarda come in tale quadro s’ inscriva il senso della morte dell’uomo stesso. L’età della tecnica (generata dall’uomo) vuole “ammazzare il tempo” per la fretta di procurarsene sempre più, ma inserisce gli uomini stessi nelle sue trame meccaniche, sino a non far più dell’uomo un essere mortale, bensì “uccidibile”. Ecco il pregevole passo del 1979: “non è un’esagerazione sostenere che sono sempre meno quelli di noi che muoiono semplicemente per stanchezza di vivere o per la debolezza della vecchiaia. Semplici casi di morte sono ormai antiquate rarità. Per lo più la morte viene prodotta. Si è fatti morire. Noi uomini di oggi non siamo mortali; piuttosto, in primo luogo, uccidibili”. Il nostro morire è parte dell’apparato tecnico, un suo momento prestabilito e rotante. Ma così è possibile per l’uomo “ammazzare il tempo”, o forse, all’inverso, è prima lui che uccide noi tutti? La questione rimane aperta.

Fatto rimane che l’ipertrofia da tempo, questa forma di bulimia esistenziale porta fino al bisogno di ucciderlo, in un circolo vizioso che ha più del patologico che del soteriologico (ammesso che fra le due cose non ci sia mai stata parentela) – non c’è il sentimento dell’assassino aristocratico, di colui che uccide per qualcosa di superiore, per salvarsi e redimersi dall’infimo – e chissà che questo piano del soggetto circa il suo rapporto con il tempo non corrisponda ad un piano metastorico, per cui all’Uomo universalmente inteso è dato, progressivamente, (voler) uccidere la sua fonte di sostentamento, Iddio, Natura, Tempo che sia…

lunedì 3 marzo 2008

Attualità di Epicuro. Per un salto a piè pari del “problema” fede - ragione

Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità

Questo breve, semplice ma focale tratto della Lettera sulla felicità di Epicuro tratteggia in maniera esemplare e del tutto attuale ciò che in primo luogo intendo sia il mio punto di partenza per ogni considerazione sulla religione ; ma non solo per me, può avere pregnanza.

Chi ora scrive è da sempre fortemente scettico (non critico, si badi) riguardo la religione - va precisato - e non ha mai mancato d’ironia nel trattare dio (si consideri già come è stato scritto: la ‘d’ non fa a tempo ad esprimere la terza persona che già s’impone ‘ IO’ – e si veda nel libro di aforismi la sezione “scomodare dio – e dunque l’uomo”).

Nell’attualità siamo , come di consueto, in quanto animali polemici (zoon polemikòs?) di fronte alla annosa “problematica fra fede e ragione”. Ma è proprio tornando a questo semplice precetto Epicureo che abbiamo il dovere di saltare a piè pari la banalità con cui, giornalisticamente, a “onor di cronaca” viene affrontato l’argomento fra i più chiassosi del silenzio del mondo e dell’interiorità con mano pesante e intelletto grattugiato da chi ne fa una questione da risolvere in una ventina di minuti (forse lo stesso tempo dedicato da costoro alla riflessione sul problema). Ulteriore chiasso fanno dunque fedeli e “razionalisti” quando tendono a far valere più una delle due posizioni sull’altra secondo il linguaggio del senso comune, come se l’uomo potesse dire di non aver bisogno talvolta del piede destro o del sinistro per vivere, amputandosi prima l’uno poi l’altro.

E questa dialettica è un prodotto della cultura. Che va dunque ripensato – forse con meno “cultura” - e con più contemplazione.

Il sensus communis, ovvero quel tarlo che colpisce non tanto lo sbadato plebeo quanto piuttosto chi ritiene d’esserne uscito fuori una volta per tutte dopo una spremuta acida di vocabolario d’italiano e dopo una vacanza nel villaggio vacanze dei luoghi comuni, animato, come sempre accade nei peggiori viaggi, dalla fretta.

RIVALUTARE QUEL MAGICO FOLLE DI GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG


Esempio di feroce ironia, acuto creatore di verità friabili e pazze, Lichtenberg (nato nel 1742) fa parte sicuramente della schiera dei filosofi troppo poco valorizzati dalla critica e dalla storiografia. Siamo di fronte a un selbstdenker, un pensatore autonomo alla maniera del Nietzsche, che dall’alto della sua idiosincrasia per i complimenti ad altri al di fuor di lui, non ha però mai smesso di considerare gli aforismi del Nostro “fra i quattro, cinque libri della letteratura tedesca degni di essere letti e riletti”. Ma pure da Kant, Schopenhauer, Goethe, Wagner era letto e amato, con una fortuna postuma ed illustre tipica proprio di questi eremiti del pensiero, così maltrattati dalla banalità della loro vita quotidiana, almeno fino a quando qualche bizzarria creata ad arte non la riaccenda. Una vita giovanile passata fra il lavoro di correttore di bozze e losche taverne, pomeriggi passati a costruire cannocchiali per poter guardare alla sera le cameriere che si spogliavano nel palazzo di fronte, almeno fino a quando non si innamorò di una mendicante per strada, che romanticamente corteggiò e un po’ meno romanticamente sposò :“il matrimonio ti fa diventare un animale a quattro zampe”. Etilista – artista del bere, si vantava di viaggi mai fatti, da vecchio dongiovanni diceva di voler sedurre “la madre di Dio”, appassionato di scheletri per lezioni d’anatomia, passò la vecchiaia ad assistere a ben 113 funerali di gottinghesi seduto comodamente nel suo giardino. Si dice che al momento della sua morte stesse confabulando in maniera incomprensibile a proposito di stelle cadenti.

Rendiamogli onore tramite svariate sue scorribande:

“I re credono spesso che quello che fanno i loro generali e i loro ammiragli sia ispirato da patriottismo e da amore per il sovrano. Ma spesso la vera molla delle grandi azioni è una ragazza che legge il giornale.”

“Che nell’uomo non ci sia nulla di speciale lo dimostra soprattutto la prolissità della giurisprudenza”.

“Se nascesse un altro messia, difficilmente potrebbe fare tanto bene quanto una tipografia”.

“La gente che non ha mai tempo fa pochissimo”.

“Se i pesci sono muti, le pescivendole sono in compenso loquacissime”.

“L’uomo dei tempi antichi sta a quello moderno come un girarrosto a un orologio a ripetizione”.

[diario personale del 1797, composto da una sola pagina, con su scritto ciò]“Il giorno 24 mi è nato un figlio”.

“Se potessimo esprimerci con la stessa completezza con cui sentiamo le cose, gli oratori incontrerebbero meno riluttanza e gli innamorati meno crudeltà”.

“Il mondo non dev’essere tanto vecchio, visto che gli uomini non hanno ancora imparato a volare”.

“Quell’uomo era così intelligente che non lo si poteva quasi utilizzare per niente al mondo”.

“Tutto si affina: un tempo la musica era frastuono, la satira una pasquinata. E mentre oggi diciamo ‘permetta, di grazia’, un tempo si rifilava uno scapaccione”.

[sul bere]” La pinica, ossia la scienza di viaggiare con profitto nei paesi al di là della bouteille(…)a me pare che non ci sia bisogno di forti lenti di ingrandimento per convincersi che una trattazione filosofica di questa teoria sarebbe di estrema utilità per il genere umano”.

“Molte cose, che ad altri dispiacciono soltanto, a me fanno male”.

“L’uomo, l’animale che affoga in una lacrima”.

domenica 2 marzo 2008

prossimamente

- un articolo su G. C. Lichtenberg

- un articolo sul problema "fede- ragione"

un particolare saluto a Scintilla.

venerdì 29 febbraio 2008

La "divina inutilità" del filosofo

Da Aristotele, passando per Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger e giungendo a Carabellese, è notevole l'excursus del definire la filosofia come riflessione sull'essere sub spaecie aeternitatis, in cui inevitabilmente emerge l'inutilità del filosofo nei confronti dellla sua epoca, in un rapporto con la storia da parte di questi a metà fra messa fra parentesi e indissolubile problematizzazione.

ottimo proprio il Carabellese, quando, intendendo la natura del filosofo alla stregua della sua "divina inutilità", dice: "egli n0n ha mai nulla di specifico da dire, ha sempre qualcosa da dire a tutti. Qualcosa che però non insegna nulla, che non indirizza affatto,qualcosa di inutile...il filosofo adunque non dà consigli, non detta norme, non cura mali, non solleva dolori". La vicinanza alle parole di Aristotele "Proprio perchè scissa dal suo rapporto con l'utilità la filosofia è il sapere più nobile" è palese. Heidegger sostiene che la filosofia "non giova ad effettuare alcun successo, perchè non ha bisogno dell'effetto", Nietzsche assevera che il filosofo è "il freno della ruota del tempo". Il carattere profondamente inattuale che accompagna la vicenda del filosofo nel tempo lo pone al di sopra di esso, da dove lo spettacolo del divenire denuda il suo telaio di fenomeni, ognora dileguantisi dal cerchio dell'apparire della realtà. La filosofia della storia, in questa prospettiva, è un sapere che non può essere emendato dalla faciloneria della critica filosofica della seconda metà del '900. Non è un caso che, nell'età della tecnica, anche il filosofo sia stato sottoposto al vaglio dell'utilità - e che il presunto e mai ben argomentato messaggio funebre sulla morte della filosofia della storia da parte dei filosofi stessi (rinchiusi nel loro "pensiero debole") abbia legato ad essa una stagione di scarsa fama. Orbene mi vien da dire:non importa se mettiamo fra parentesi la storia, noi filosofi d'oggi - se solo così possiamo prendere la rincorsa per vederla, questa storia! Nelle parentesi è sempre racchiusa una verità che si tace e che seduce. Siamo semmai nell'epoca- grazie ad autori come quelli prima citati - della filosofia sulla storia, della sinottica dell'essere sul divenire. Possiamo ancora parlare di post-histoire ?